La riforma di Cassa Forense: si cambia, ecco perché

Nelle settimane scorse è stata approvata dal Comitato dei Delegati la riforma della previdenza forense che entrerà in vigore il 1° gennaio 2024, dopo il benestare da parte dei Ministeri vigilanti.

Ma perché si è deciso di intervenire con una riforma?

Tutto va ricondotto al metodo di finanziamento del sistema pensionistico, cioè da dove vengono presi i soldi per pagare le pensioni: qui sta il problema. Si potrebbe pensare che le risorse per il pagamento della pensione derivino, per ogni avvocato, dagli accantonamenti dei contributi fatti durante la vita lavorativa e che, quindi, ogni professionista abbia una sorta di posizione nominale dalla quale si andrà ad attingere al momento della pensione.

Non è così.

Nel sistema forense (come in tutti i sistemi obbligatori), per pagare le pensioni ogni anno, si attinge ai contributi versati dagli avvocati in attività in quello stesso anno, avvocati che, quindi, non hanno alcun accantonamento nominale ma dovranno a loro volta contare sui contributi versati da altri professionisti quando loro saranno in pensione, in una sorta di “patto intergenerazionale”.

Come si può intuire, in un sistema di finanziamento del genere (detto “a ripartizione”) ci sono due elementi importanti:

  • il numero di iscritti (più iscritti ci sono, maggiori sono i contributi versati) e

  • l’entità dei redditi prodotti dai professionisti (più sono alti i redditi maggiori sono i contributi versati).

Ebbene, entrambi questi dati, per gli avvocati, risultano in diminuzione per il futuro. I redditi (in potere di acquisto) risultano, in realtà, in flessione già dal ’96, mentre il numero degli iscritti alla Cassa, in calo per la prima volta nel 2021, continuerà a scendere negli anni a venire a causa della riduzione del numero degli iscritti alle facoltà di giurisprudenza e dell’abbandono della libera professione a favore di una carriera nell’amministrazione dello Stato da parte di numerosi professionisti.

A fronte di questa riduzione delle entrate, è prevista, inoltre, una crescita della spesa previdenziale: nei prossimi 15, 20 anni, infatti, andrà in pensione circa il 40% degli iscritti (i baby boomers) che saranno anche quelli con pensioni più alte (perché riferite a periodi in cui i criteri di calcolo erano più favorevoli).

L’ultimo bilancio tecnico attuariale di Cassa Forense (2020), che proietta i dati demografici e reddituali della categoria su un orizzonte temporale di almeno 30 anni, mostra infatti l’azzeramento del saldo previdenziale (cioè della differenza tra le entrate e le uscite della Cassa) nel 2049, arrivando, nel 2070, a dimezzare il patrimonio della Cassa per far fronte alla spesa per pensioni.

Sono quindi in primis i mutamenti demografici e poi quelli reddituali della categoria forense che hanno richiesto interventi in grado di assicurare nel tempo il pagamento delle pensioni a tutti gli iscritti. In questo senso, la riforma risponde a due esigenze: un obbligo di legge che impone la sostenibilità del sistema nel tempo (a 30 anni con proiezione a 50 anni) e un obbligo morale di correttezza intergenerazionale verso i professionisti più giovani.

Le questioni che emergono dalla riforma sono varie.

Certamente la modifica più importante riguarda il criterio di calcolo delle pensioni che prevede il passaggio, “per anzianità”, dall’attuale sistema retributivo, al metodo di calcolo contributivo. Questo comporterà ricadute concrete sulle prestazioni previdenziali future degli avvocati.

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Cassa Forense - Passaggio dal retributivo al contributivo: quali implicazioni?

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Avvocati: variabilità dei redditi e perdite finanziarie